EMDR, moda o risorsa?

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Sino a pochi anni fa l’acronimo E.M.D.R. sarebbe risultato sconosciuto alla quasi totalità di coloro che non si occupano direttamente di benessere psicologico.  Negli ultimi anni questa metodologia, che trova le sue origini tra le fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90, ha raggiunto invece una grande notorietà dopo essere stata nominata da alcuni personaggi del mondo dello spettacolo, che hanno avuto modo di sperimentarla in prima persona. In tempi recenti, infatti, non è raro che che attori, sportivi e influencers, sull’onda di una cultura che sembra concedere qualche timido spazio in più al parlare di salute mentale e di sofferenza psicologica, raccontino pubblicamente dei propri percorsi psicoterapeutici, entrando nel merito sia delle proprie fatiche, sia degli approcci utilizzati e dei benefici riscontrati.

Non è semplice stabilire le ragioni che stanno dietro alla rapida diffusione dell’EMDR tra gli addetti ai lavori, se ricondurle alla sua versatilità, alla modesta quantità di tempo che richiede per essere utilizzata, alla grande mole di ricerche fatte sul suo utilizzo, o al suo impiego nell’ambito  delle emergenze umanitarie. In estrema sintesi si tratta di una tecnica pensata per facilitare la rielaborazione di ricordi traumatici o particolarmente impattanti sulla quotidianità delle persone, lavorando non solo con la parola, ma mettendo il corpo in prima linea. Il fulcro nella tecnica è, infatti, una stimolazione guidata in cui il terapeuta porta il paziente a compiere una serie di movimenti oculari alternati. L’acronimo sta per eye movement desensitization and reprocessing, ovvero desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari

Perché i movimenti oculari?

L’idea alla base della metodologia è che in presenza di un’esperienza traumatica l’elaborazione di quella stessa esperienza risulta in qualche modo “incompleta”, lasciando incompiuti i normali processi di registrazione e immagazzinamento dei ricordi. In tale situazione alcuni stimoli che nel presente sono attinenti all’evento traumatico, scatenano una reazione la cui intensità è del tutto simile a quella sperimentata al tempo del trauma, corredata dalle medesime sensazioni corporee e delle stesse emozioni. Secondo gli ideatori e gli sviluppatori della tecnica, il movimento oculare, effettuato nel contesto protetto della stanza di terapia, consente una rievocazione dell’evento in questione, che porta tuttavia ad una corretta rielaborazione del ricordo, che infine resta solo una  una memoria, una memoria che può essere triste o faticosa, ma che non determina più la violenta intrusione di vissuti appartenenti al passato.

L’EMDR si usa solo per lavorare sui traumi?

Sebbene questa metodologia sia nata proprio per occuparsi dei disturbi post traumatici , ad esempio quelli presentati dai reduci di guerra, o da chi subisce un incidente, le sue applicazioni oggi riguardano più ambiti. Esistono infatti situazioni, decisamente meno evidenti e plateali di un trauma in senso stretto, che, soprattutto se ripetute nel tempo, possono avere conseguenze disturbanti. Si tratta di eventi come umiliazioni, spiacevoli interazioni umani, rapporti faticosi con figure di riferimento importanti, che non si accompagnano ad una sensazione di pericolo per la propria incolumità come succede nei grandi traumi, ma che possono avere un impatto sul senso di identità e sulla personalità. In questi ambiti l’EMDR si propone di lavorare su questi piccoli traumi, rintracciandoli nel corso della psicoterapia, motivo per cui la metodologia viene utilizzata nell’ambito di diversi disturbi quali ansia, depressione, disturbo da attacchi di panico etc…

Per quanto l’EMDR sia una metodologia soggetta a diversi studi e sperimentata da diversi anni, vale la pena ricordare che non può essere una tecnica utilizzata al di fuori di un contesto terapeutico. È anzi fondamentale tener presente che deve essere proposta all’interno di una relazione ben consolidata tra terapeuta e paziente, e non consiste in qualcosa da proporre in maniera meccanica senza tenere conto di chi la conduce e di chi partecipa. È importante aver presente che, sebbene la notorietà della metodologia possa far nascere il desiderio di vederla applicata su di sé, deve essere il terapeuta a valutare se essa possa o non possa avere un valore terapeutico, e quando sia opportuno metterla in campo.

Dott. Francesco Colombo

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