Psicofarmaci sì, psicofarmaci no. Da che parte stiamo? Per lungo tempo, in psicoterapia, la questione è stata posta in questi termini, quasi come se si trattasse di tifare per una squadra o per l’altra. In realtà oggi, fortunatamente, quasi tutti gli specialisti (psichiatri o psicoterapeuti che siano) hanno abbandonato le proprie “ortodossie” per convergere su una posizione che abbia a cuore esclusivamente il benessere del paziente e se ne faccia carico a 360 gradi. Bene, ma qual è il benessere del paziente? Quando e come è opportuno assumere psicofarmaci?
Per orientarci su un tema così delicato e complesso è opportuno cominciare da alcuni dati, ben riassunti nel volume “Psicopillole – Per un uso etico e strategico dei farmaci”, scritto a quattro mani da Alberto Caputo, psichiatra e psicoterapeuta, e Roberta Milanese, psicologa e psicoterapeuta. Passiamo in rassegna i dati più significativi che lì vengono esposti: dal 1999 al 2013 le prescrizioni e le assunzioni di psicofarmaci sono raddoppiate negli USA e un andamento simile si è registrato in Europa. L’Italia è la quarta nazione nel Vecchio Continente quanto ad uso di psicofarmaci. Secondo i dati più recenti raccolti dall’Agenzia Italiana del Farmaco, 12 milioni di italiani oggi assumono psicofarmaci. Da un punto di vista commerciale, questa categoria di sostanze rappresenta la più importante fonte di entrate per le case farmaceutiche (si stima un giro d’affari mondiale di 900 miliardi di dollari l’anno). Un ultimo dato, infine, ci dà un quadro preciso dell’evoluzione di questo settore: tra il 2005 e il 2012 la prescrizione e l’uso degli antidepressivi destinati a bambini e adolescenti è aumentato del 40%.
Alla luce di questi dati è chiaro che, da un lato, è come se fossimo di fronte ad una sorta di pandemia di disturbi psichici (che coinvolge tutto il mondo “progredito”) e, dall’altro, si sta verificando una complementare esplosione nell’utilizzo dei farmaci che curano quelle “malattie”. Ma – è opportuno chiedersi – tutte le forme di disagio, sofferenza, paura e via dicendo devono essere curate farmacologicamente? Tutte le condizioni emotive spiacevoli, limitanti, dolorose che un individuo può incontrare nel suo percorso di vita devono essere “sedate”?
Per fare degli esempi concreti: se un adolescente vive una fase di paura del confronto con i coetanei e tende ad isolarsi è opportuno che assuma immediatamente farmaci? Se un uomo di mezza età perde il lavoro ed è preoccupato per il futuro professionale che lo aspetta deve essere necessariamente indicato, e quindi curato, come “depresso”? Una neo-mamma che non si sente all’altezza del compito educativo che la aspetta è opportuno che assuma, in prima istanza, sostanze psicoattive?
Fortunatamente il pregiudizio culturale secondo cui una sofferenza psichica è manifestazione di un problema neurologico è stato superato. Adesso il “rischio culturale” che corriamo è quello di indicare come “sintomi psichiatrici” tutte le manifestazioni emotive spiacevoli alle quali la vita, ahimè, ci espone, che sia paura, rabbia, noia, scoraggiamento, ansia, apatia, impotenza, e via dicendo. Si tratta di condizione “umane”, anzitutto, e non necessariamente “psichiatriche”.
Detto questo, è chiaro che gli psicofarmaci sono un importante aiuto in alcune condizioni. È però indispensabile, da parte degli specialisti, comprendere appieno ciò che sta accadendo al singolo individuo sofferente ed usare la psicofarmacologia con cognizione di causa. In alcune circostanze “manipolare” farmacologicamente alcune condizioni emotive, cognitive, comportamentali significa togliere al diretto interessato l’opportunità di superare alcuni suoi limiti e di crescere come persona.
Dott. Enrico Bassani – Psicologo Lecco