L’educazione emotiva del bambino

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Uno dei temi che suscita, legittimamente, maggior interesse tra i genitori è l’educazione e il benessere dei propri figli. Ci occuperemo dunque, in questo intervento, di quella che potremmo definire “educazione emotiva”.

Iniziamo da una contestualizzazione dell’area di pertinenza. Che cosa significa “educazione emotiva”? Sono moltissime, com’è lecito aspettarsi, le declinazioni attraverso cui si può intendere questa espressione. Noi concentreremo la nostra attenzione sull’aiuto che un genitore può dare al proprio figlio circa il mettere a fuoco e il dare nome a ciò che prova. Abbiamo già avuto modo di dire quanto questo aspetto sia strettamente intrecciato al benessere personale. Nelle poche righe che seguono cerchiamo di dare qualche indicazione su come favorire tale capacità.

Partiamo da un dato di fatto. Un bambino quanto più è piccolo tanto meno ha dimestichezza con il mondo e con sé stesso. Negli episodi che costituiscono la sua vita agli esordi un bambino prova una sterminata quantità di emozioni e sensazioni rispetto a esperienze nuove che rappresentano i suoi primi contatti con in mondo esterno e con sé stesso. E’ comprensibile, quindi, che sia disorientato nel cercare di mettere ordine, e successivamente dare un nome, a ciò che gli accade.

Alcune esperienze, in particolare, saranno molto perturbanti. Pensiamo alle prime, intense, esperienze di paura, o di rabbia, o alla sensazione di essere abbandonato, nei distacchi dalle figure di riferimento. Viceversa, pensiamo al piacevole calore percepito nell’abbraccio di mamma e di papà, alla loro vicinanza in momenti di difficoltà. O, rispetto a sensazioni più elementari, pensiamo al gusto e disgusto rispetto al cibo, nelle sue infinite varietà, o al dolore per un piccolo infortunio, e via dicendo. Nei primi anni di vita il bambino struttura il suo mondo interiore lungo molte dimensioni, la più elementare delle quali è il piacere contrapposto al dispiacere. Come aiutarlo in questo complesso e articolato compito?

La risposta è tanto semplice da dire quanto difficile da realizzare: accompagnarlo. Il che significa aiutarlo con delle domande molto semplici, alla sua portata, circa quello che sta vivendo e gli sta capitando. Osservare ciò che gli accade nel contatto con il mondo esterno e insegnargli pian piano ad associarlo agli stati emotivi che vive.

Domande elementari che aiutano il bambino anzitutto a focalizzare l’attenzione su di sé e su ciò che è accaduto. In seconda battuta costruiscono una relazione, un modo di stare insieme partecipe ed attento. Infine permettono di costruire e differenziare, nel bambino stesso, un mondo emotivo interno che si articolerà in modo sempre più preciso e dettagliato. Alle domande, infatti, faranno poi seguito anche le spiegazioni fornite dai genitori, che daranno nuove parole e quindi la possibilità di una discriminazione sempre più precisa e dettagliata di ciò che è accaduto nel mondo esterno e in quello interno.

Tutto questo è reso ancor più semplice e immediato in un clima e linguaggio familiare in cui non si ha paura di vivere le emozioni e di parlarne. Fino a due o tre generazioni fa i nostri nonni erano molto restii a manifestare le proprie emozioni, sia che si trattasse di amore (“Carezze e baci vanno dati ai bambini solo quando dormono”, era una frequente raccomandazione), sia che si trattasse di dolore (farsi veder piangere era quasi un’umiliazione). E i bambini, coerentemente, imparavano presto, a loro volta, a non esprimere ciò che provavano e a non dargli valore.

Ora che è più chiaro anche al senso comune il ruolo che una certa educazione e consapevolezza emotiva può avere nel rendere più semplice, oltre che più chiara, la vita c’è fortunatamente una diversa attenzione all’universo delle emozioni.

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